L’avvicinarsi del Natale riporta alla mente i periodi delle feste di quando ero bambino.
La mia infanzia è stata in un piccolo appartamento a Urbino tra gli anni ‘40 e i primi degli anni ’50. Si cominciava con il presepio: il muschio s’andava a cercare nei boschi e nei campi, io ci andavo con le mie sorelle. Mi sembrava di andare così lontano, ma in realtà noi ci recavamo oltre la balaustra dietro il monumento a Raffaello, nel greppo sottostante, quando non c’erano case e solo campi all’orizzonte. Il muschio lo chiamavamo “la borra“ (dalla pianta
borragine, che in realtà è un’altra specie), la sua ricerca con un canestro in mano era il primo approccio, poi si veniva a casa a fare il presepio.
Noi lo facevamo piccolo in una angoliera, ma molto bello. Le statuine erano di coccio, ogni famiglia le teneva da tempo immemorabile. L’allestimento del presepio a cui sono affezionato è quello “appenninico“. Mi spiego: ci sono quelli napoletani, così ricchi e belli, dei presepi urbani adatti alle città. Ci sono quelli orientali coi turbanti, le case con le cupole.
Per me, quello vero è quello nostro, quello appenninico che ha inventato san Francesco, con il muschio, i pastori coi canestri, il paesaggio montano. Il presepio mi dava una tenerezza immensa perché, rispetto ai simboli pasquali che mi mettevano inquietudine, il presepio significa nascita e unione nel cosmo.
Dai personaggi, alle pecore, gli alberi, i pastori, la guardiana d’oche, gli angeli, l’asino e il bue, tutto era in un’unità cosmica, tutto trovava nella culla il suo centro armonico che anche
per i non credenti è un simbolo di unità e armonia. Sono legatissimo al presepio e alla figura del pastore in particolare, tanto che spesso l’ho inserito nelle mie poesie. Poi c’era l’albero di Natale. Mio padre, tornato dalla guerra in anni ancora poveri, andava a tagliare un ramo di pino alla pineta. Lo portava a casa e si sistemava. Era bellissimo, ma tutto diverso da quello di oggi: oggi sono alberi cosparsi di luci, alberi tutta apparenza.
Allora invece gli alberi erano addobbati con un sacco di cose da prendere, da piluccare. Tutto rigorosamente appeso. C’erano i mandarini, le arance incartate, i primi torroncini. Veniva il mio futuro cognato, fidanzato di mia sorella Ebe, e ci portava le prime monete di cioccolata in commercio, che ci colpivamo moltissimo e anche
quelle le appiccicavamo all’albero. La neve la facevamo coi fiocchi di bambagia e le luci erano fatte dalle vere candeline sui rami. Anche i regali spesso venivano appesi, se non erano troppo pesanti. Ma erano regalini quasi sempre da mangiare, non c’erano i giocattoli.
Questo perché Babbo Natale non esisteva, si aspettava la Befana. Babbo Natale lo vidi per la prima volta anni dopo, forse al cinema in qualche
pellicola americana. L’albero addobbato era il simbolo di una ritrovata agiatezza dopo la
guerra.
(Fine prima parte. Continua…)